Ciao,
avrei voluto inaugurare questa newsletter con un tema più leggero, ma mi sono impegnato a raccontare a te che sei distante che aria tiri qui in Italia.
Ecco: ultimamente non tira una bell’aria.
Parlandone con mio fratello l’altro giorno, dicevo che mi sembra di essere tornati ai primi anni Duemila. Quelli del G8 di Genova, per intenderci. C’è rabbia, tanta rabbia che sta emergendo in forme diverse all’interno di gruppi sociali diversi per motivi apparentemente diversi, generando episodi che sembrano scorrelati ma che a ben guardare non lo sono poi così tanto.
Cosa è successo
Come dicevo la volta scorsa, esuli non è una newsletter di notizie, ma per capire cosa stia succedendo, oggi dobbiamo partire da alcuni fatti di cronaca. Se non leggi i giornali italiani, trovi questi fatti riassunti brevemente qui sotto; se li leggi, puoi saltare questo blocco.
Uno. Questa settimana, nel quartiere Corvetto, alla periferia di Milano, per diversi giorni decine di persone hanno protestato in strada per la morte di un ragazzo di 19 anni di origine egiziana, Ramy Elgaml, deceduto in un incidente avvenuto mentre fuggiva dai Carabinieri in sella a un motorino guidato da un altro ragazzo nella notte tra sabato e domenica.
I manifestanti, molti dei quali sono giovani italiani figli di immigrati, hanno lanciato petardi e bottiglie, incendiato cumuli di spazzatura e danneggiato autobus e pensiline.
Due. Venerdì in tutta Italia c’è stato uno sciopero generale, cioè dei lavoratori di tutti i settori, sia pubblici che privati, indetto dai sindacati CGIL e UIL per protestare principalmente contro i tagli alla spesa pubblica e l’inasprimento delle pene contro chi manifesta proposti dal governo.
Lo sciopero ha avuto un’adesione molto alta, del 70 percento. Durante la giornata si sono tenute manifestazioni in tutta Italia, a cui hanno partecipato più di mezzo milione di persone. A Torino ci sono stati scontri tra le forze dell’ordine e i manifestanti, che hanno dato fuoco a dei cartelloni con foto di politici urlando “al rogo, al rogo”.
Tre. Lunedì 25 novembre, data in cui cadeva la Giornata internazionale per l'eliminazione della violenza contro le donne, il pubblico ministero della procura di Venezia ha chiesto l’ergastolo per Filippo Turetta, il ragazzo accusato di aver ucciso Giulia Cecchettin, il cui femminicidio è stato uno di quelli che hanno avuto più risonanza mediatica in Italia negli ultimi anni. Lo stesso giorno un altro ragazzo, Alessandro Impagnatiello, è stato condannato all’ergastolo per aver ucciso Giulia Tramontano e il figlio di sette mesi che portava in grembo.
Due giorni prima, a Roma, decine di migliaia di persone hanno manifestato insieme al movimento femminista Non Una Di Meno contro l’inadeguatezza delle istituzioni nel contrasto alla violenza di genere. Anche lì è stata incendiata la foto di un ministro, quello dell’Istruzione Valditara, per alcune sue dichiarazioni molto contestate sul patriarcato e i femminicidi (ci torniamo).
Queste tre manifestazioni, portate avanti da gruppi sociali ben definiti anche se parzialmente intersecati — giovani immigrati e di seconda generazione, lavoratori, donne —, sono tutte espressioni della frustrazione e della rabbia che queste persone provano in questo momento storico in Italia.
Queste rabbie sulla carta hanno motivi ben distinti: i ragazzi del Corvetto chiedono “verità per Ramy”, accusando le forze dell’ordine di aver provocato la morte del ragazzo. I lavoratori scioperanti chiedono di non tagliare spesa pubblica e welfare, di mantenere il proprio diritto allo sciopero e alla protesta, di aumentare le assunzioni nelle pubbliche amministrazioni e salvaguardare l’occupazione. Le donne chiedono l’eradicazione della cultura che porta alla violenza di genere e ai femminicidi.
Al tempo stesso però, pur con le loro peculiarità, le rabbie di questi gruppi sociali sembrano avere una componente comune: la frustrazione per una situazione di disparità insostenibile di cui nessuno si sta facendo carico.
Nel caso dei ragazzi del Corvetto (zona che peraltro conosco bene, avendoci fatto le scuole d’infanzia), le ragioni della rabbia sono chiaramente più complesse e profonde di quelle dichiarate. In questa intervista, un amico di Ramy racconta che alla protesta si è unita gente da fuori Milano, addirittura da Genova, e che la morte di Ramy è stata “una scintilla, la goccia che ha fatto traboccare il vaso”. Ma di cosa era colmo questo vaso? Lo dice lo stesso ragazzo nell’intervista: negli ultimi anni, la situazione di degrado in cui vivono è andata crescendo e si sentono abbandonati a loro stessi perché mancano opportunità.
Ora, sentire un ragazzo di Milano dire che mancano opportunità credo renda bene l’idea di quello che sta succedendo in Italia. Milano è di gran lunga la città italiana con più opportunità di lavoro, reddito, impresa e networking. Quest’anno è addirittura arrivata al primo posto in una di quelle classifiche ridicole sulla qualità della vita. Se un ragazzo che vive in questa città dice che non ci sono opportunità, abbiamo un problema: è evidente che l’abbondanza di opportunità non è distribuita equamente. Peraltro, la zona in cui si trova Piazzale Corvetto è una delle più interessate dagli investimenti per le Olimpiadi invernali Milano-Cortina del 2026, quelle che, ironicamente, dovevano portare opportunità e lavoro sul territorio.
Il problema della distribuzione disuguale di opportunità non riguarda solo i ragazzi del Corvetto. A Milano, dal 2019 a oggi, i redditi di chi guadagna oltre 120 mila euro sono in media aumentati, mentre quelli di chi guadagna meno di 10 mila euro sono diminuiti. Il reddito medio di chi abita in centro è arrivato a essere 5 volte quello di chi abita in periferia: 94 mila euro in Brera contro 17 mila euro a Quarto Oggiaro. La forbice si sta allargando, la società si sta polarizzando.
Peraltro, con i social è aumentata molto l’esposizione di chi ha meno all’ostentazione da parte di chi ha di più (è più facile fare un milione di visualizzazioni con un video girato su una Ferrari che con uno girato su una Panda). Questo aumenta la deprivazione relativa percepita da chi ha meno, cioè la sua insoddisfazione derivata dal confronto con chi ha di più.
Aggiungo che qua non si tratta solo di essere infelici perché ci si paragona a chi è più ricco: qui c’è proprio il problema di come arrivare a fine mese. Gli affitti in periferia costano in media 240 euro al metro quadro l’anno: per un trilocale di 70 metri quadri si spendono 16.800 euro. Se te ne entrano 17 mila, come fai a campare?
Non stupisce quindi quel murales che in Corvetto recita “la casa si prende, l’affitto non si paga” (non so se sia ancora lì, c’è stato per anni). Solo che se non paghi l’affitto generi la rabbia reazionaria dei proprietari, che, intendiamoci, non sono tutti Elon Musk. Tantissimi fanno parte di quella che una volta si chiamava classe media, che ha messo via con sacrificio quel tanto che bastava a investire in un appartamento per garantirsi una rendita in vecchiaia, e se quella rendita non arriva, giustamente, si incazza. E così la società si divide sempre di più.
La disuguaglianza crescente non è soltanto un problema di Milano: l’indice Gini, che la misura, ci dice che in Italia, dal Duemila a oggi la disuguaglianza è aumentata.
Il medesimo problema è evidentemente anche alla base delle richieste dei lavoratori scioperanti. Dal duemila a oggi, i salari reali (cioè al netto dell’inflazione) sono DIMINUITI dello 0,9 percento. Perciò, chi campa di salario si è impoverito.
In Italia, il 12 percento dei lavoratori è sotto la soglia di povertà. Parliamo di tre milioni di persone che, nonostante lavorino, non riescono a mangiare a sufficienza, a pagare le bollette, a curarsi.
Peraltro, indovina chi è più probabile incontrare tra questi? Donne, giovani, immigrati. Rings a bell?
Se poi allarghiamo il campo visivo includendo anche chi non lavora, arriviamo a questo dato folle: nel 2023, secondo l’ISTAT il 22,8 percento della popolazione italiana era a rischio di povertà o esclusione sociale. Il 22,8 percento. Una persona su quattro. Pronto? C’è nessuno?
Poi c’è la rabbia delle donne. In questo caso, il problema non si ferma chiaramente alla disparità, perché di questa disparità tanti uomini fanno abuso quotidiano. In Italia c’è un femminicidio ogni 3 giorni, e nel 2024 si è registrato un aumento delle chiamate al numero verde 1522, dedicato alle vittime di violenza. Come sappiamo poi, la violenza molto più spesso è prima ancora verbale, psicologica, economica.
Non sto qui a dilungarmi su un argomento di cui ho poco titolo per parlare, essendo io un maschietto. Ma è evidente che se si lavorasse per eliminare quella disparità (di opportunità prima di tutto), gli uomini non potrebbero abusarne. E non sto parlando di quote rosa, non sono un grande fan. Parlo di investire sull’istruzione delle ragazze e incentivare loro e le loro famiglie affinché intraprendano carriere remunerative, incentivare le imprese a ridurre il gap salariale, omologare il congedo parentale in modo che assumere una donna in età di maternità abbia per l’azienda lo stesso rischio di assumere un uomo, ecc.
Rimarrebbe in molti casi la disparità fisica, ma di quella un uomo non abusa se è stato educato a non farlo. Tra le cose che le femministe lamentano mi sembra ci sia anche e soprattutto questo: la mancanza non solo della volontà dello Stato di educare i suoi uomini, ma prima ancora di riconoscere il problema. Le frasi per cui il ministro dell’Istruzione (cioè la persona che deve occuparsi di risolverlo) è stato duramente criticato, lo dimostrano.
Valditara ha detto che il patriarcato “come fenomeno giuridico è finito con la riforma del diritto di famiglia del 1975, che ha sostituito alla famiglia fondata sulla gerarchia la famiglia fondata sulla eguaglianza”. Insomma, tutto a posto since 1975 secondo lui, che parla di “residui di maschilismo” e che non rinuncia alla golosa opportunità di dare la colpa allo straniero: “l'incremento dei fenomeni di violenza sessuale è legato anche a forme di marginalità e di devianza in qualche modo discendenti da una immigrazione illegale”.
Ora, se è vero che gli stranieri sono sovrarappresentati tra gli autori di violenze sessuali rispetto alla loro presenza nella popolazione generale (sono il 9 percento del totale, mentre il 43 percento degli stupri è imputato a stranieri), resta il fatto che il 57 percento delle violenze sessuali è commessa da italiani e l’86 percento dei femminicidi avviene in ambito familiare. Che facciamo, continuiamo a far finta che l’educazione degli uomini italiani non sia determinante?
Insomma, per concludere. A me sembra che tutta questa rabbia, queste rabbie, siano riconducibili a una matrice comune: non solo l’effettiva esistenza di disparità crescenti, non solo la loro percezione da parte di chi le subisce, ma forse più di ogni altra cosa lo sconforto nel sentirsi abbandonati da chi queste disparità dovrebbe riconoscerle ed eliminarle.
Giuro che la prossima volta parliamo di qualcosa di più leggero, ma oggi proprio non potevo parlare d’altro.
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Grazie,
a presto.
Leonardo