L’altra sera c’era il Papa da Fazio. Non era la prima volta, ma fa sempre effetto vedere il Papa in videocall come fosse un tuo collega in remoto intervistato da quello che, per chi ha la mia età, è e sarà per sempre il conduttore di Quelli che il calcio.
La prima cosa che ti chiedi, dopo esserti concesso un istante di vertiginosa speculazione sul potere alacremente accumulato dal conduttore negli ultimi 30 anni, è: che ci fa il Papa da Fazio?
Per capirlo, anche se non è proprio il tuo genere, decidi di guardarti quest’intervista che è un qualcosa di poco televisivo e poco ecclesiastico, con ritmi da sermone più che da prima serata e una sua liturgia che ha qualcosa di diverso da quella seguita nelle interviste agli altri ospiti. All’inizio non riesci a definire cosa ci sia di differente, poi capisci: lo studio è in completo silenzio. La gente non applaude. Ti domandi se sia stato il Papa o Fazio a imporre questa scelta che rende il tutto ancor più surreale e poco televisivo.
Dal canto suo, Papa Francesco si presenta in un ambiente che di papale non ha nulla. È completamente spoglio: un tavolo di vetro davanti, delle cortine bianche a bande verticali dietro, fine. Potrebbe trovarsi nell’ufficio di Men in Black se non fosse per quel trono vagamente esotico, che ricorda lo scranno del reggente di una repubblica poco democratica equatoriale più che quello di un papa.
Mentre tutti questi dettagli vengono registrati dal tuo cervello assieme al mantra “Dio perdona sempre”, ripetuto a intervalli regolari dal man in white, ti rendi conto che non hai ancora cambiato canale perché ancora non hai capito che ci fa il Papa da Fazio.
A un tratto l’inquadratura si allarga, lasciando apparire sul tavolo, alla destra del padre (chiedo venia), un tomo. Non ci badi, sarà la Bibbia. Poi noti che anche Fazio ha in mano un libro molto simile, con cui giocherella mentre fa le domande. Ma vuoi vedere che… prima che tu possa redarguirti per la tua malafede, è tutto limpido nella sua banalità. Non è la Bibbia: si intitola Spera, è edito da Mondadori, costa venti euro e novanta ed è l’autobiografia del Papa, che puoi trovare su Amazon o in libreria dal 14 gennaio.
Ora, tralasciando il fatto che ormai per guardare un talk show serva la stessa sospensione dell’incredulità necessaria a leggere Il signore degli anelli, vogliamo davvero biasimarlo? Il Papa (o chi per lui) ha scritto un libro. Vuole vendere questo libro. Se vuoi vendere un libro, in Italia devi andare da Fazio: fai i tuoi bei tre milioni di spettatori e vedrai che qualche decina di migliaia di copie si venderanno. Del resto, il marketing l’ha inventato la Chiesa. Ce lo saremmo aspettati vent’anni fa? No, ma i tempi sono quelli che sono e pure i papi tengono famiglia (non dico in senso letterale - almeno, non in questo caso): se un amico ti invita in trasmissione in prima serata sul Nove a presentare il tuo libro che fai, non ci vai? Che ha il Papa meno di Michele Serra? E poi, la tua intervista viene subito dopo quella di Cecilia Sala! Sai che ascolti?
A proposito di Cecilia Sala, la giornalista liberata l’8 gennaio dopo una detenzione di tre settimane in Iran di cui abbiamo parlato qui: pochi giorni dopo il suo rilascio, passando davanti a una libreria, mi si è parata davanti questa vetrina:
Posto che Sala non ha alcuna responsabilità sulle strategie di marketing che il suo editore e le librerie decidono di mettere in atto per vendere i suoi libri, questa vetrina è agghiacciante almeno quanto è scontata. È la banale materializzazione di quanto tutti avevamo immaginato sarebbe successo al suo rilascio fin dal momento in cui abbiamo saputo del suo arresto: la monetizzazione della sua sofferenza.
A chi dirà che questa vetrina non fa altro che cavalcare la notizia del momento come fanno tutte le vetrine di tutte le librerie, mi permetto di far notare che l’operazione è leggermente più sofisticata. La disposizione del banco, con la foto della scrittrice al centro e i due libri di Murakami posti di fronte a mo’ di offerta, richiama quella degli altarini ai martiri o ai morti di famiglia. Vuol dire: “lei è una di noi che ha sofferto”. Messaggio che, combinato con le copie del suo libro posizionate tutto intorno si trasforma in: “lei è una di noi che ha sofferto, compra il suo libro”.
I due tomi di fronte a lei sono poi due copie di Kafka sulla spiaggia, libro che le è stato concesso dai carcerieri e che lei dal carcere, in una telefonata, ha chiesto al suo compagno di comprare, in modo da leggerlo simultaneamente e sentirsi meno sola. Questo fatto privato, che Sala ha condiviso pubblicamente nel racconto dei suoi giorni di detenzione, viene qui usato per vendere anche il libro di Murakami (due piccioni con una fava!) facendo leva sulla curiosità morbosa del passante nei confronti del dolore generato da questa vicenda. Quelle due copie messe di fronte alla foto di Sala dicono: “qui puoi comprare e leggere lo stesso libro che lei e il suo compagno hanno letto mentre lei era in cella, così da immedesimarti in lei e in lui nel momento in cui soffrivano”.
Già salito il conato?
Se l’abilità comunicativa di chi ha allestito la vetrina è ragguardevole - ha raccontato una storia intera solo posizionando dei libri su un ripiano - l’operazione lascia un senso di delusione disperata nei confronti dell’umanità. È la delusione di quando si ottiene conferma di una precognizione sgradevole che si aveva ma si sperava di sbagliarsi. Quella che si ha quando si constata che, di fronte alla scelta tra approfittarsi o meno di una situazione, l’uomo torna sempre e inesorabilmente a scegliere di approfittarsene. Insomma, che l’occasione fa l’uomo ladro e non c’è redenzione. E il fatto che una parte della monetizzazione arrivi a Sala è irrilevante.
Anche qui però dobbiamo chiederci: possiamo davvero biasimare chi ha allestito (o ordinato di allestire) quella vetrina in quel modo? Avendo lavorato nel marketing per anni, una parte di me non può evitare di constatare che questo è quello che andava fatto ed è stato fatto a regola d’arte, peraltro con un certo piglio creativo. Come nel caso del Papa da Fazio, you gotta do what you gotta do.
Non solo: mi viene da dire che se non fosse stato fatto, la persona responsabile avrebbe potuto essere tacciata di non saper fare il suo mestiere, di essersi lasciata sfuggire un’occasione ghiotta come un gol a porta vuota. Possiamo quindi condannarla?
Di certo l’avremmo condannata se quella vetrina l’avessimo vista mentre Cecilia Sala era detenuta. Sarebbe finita sui giornali. Ma cosa cambia? Siccome il pericolo è scampato, ora è accettabile monetizzare il suo dolore?
Da questo corto circuito non si esce se non scindendo la persona dal ruolo che ha all’interno dell’organizzazione, e riconoscendo che chi ha allestito quella vetrina ha fatto quello che doveva fare per tenersi il suo lavoro. Il problema è quindi a monte: perché il suo lavoro richiede di sfruttare la sofferenza di una persona e la morbosità di altre? Dove vogliamo che si fermi il marketing? È vero che in Italia si vendono pochi libri, ma è davvero necessario scendere così in basso per venderne qualcuno in più?
Esuli di oggi finisce qui. Se ti piacciono i libri, ti interessa l’industria editoriale italiana e vuoi leggere qualcosa di rinfrescante, ti consiglio la newsletter Bengala, di Ray Banhoff. Questa settimana tra l’altro parla di un tema a me molto caro, che credo riprenderò nelle prossime settimane: il brutto che ci circonda.
Ci vediamo,
Leonardo
Concordo al 100% e ahime, mentre sentivo la puntata di condivisione dell'esperienza, in un certo senso immaginavo sarebbe finita così.
Ho riso più del dovuto